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Paolo Rossi   rossi_paolo@camera.it
inserito il 19/3/2008 alle 12:51

Tessitore unico e maestro per noi giovani

di Dario Franceschini
(«Il Messaggero», 16 marzo 2008)
 
 
 
Quando ricordiamo il 16 marzo vengono alla mente le immagini strazianti di via Fani, i corpi degli uomini della scorta, Oreste Leonardi, Raffaele Jozzino, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Domenico Ricci. Le auto crivellate di colpi, il lenzuolo sull'asfalto, segno di una pietà troppo fragile di fronte a tanto disumano strazio. E oltre quella cortina di morte il peso di un'assenza che avvertimmo subito come un vuoto drammatico.
Aldo Moro, per noi giovani democratici cristiani di quella difficile stagione politica, non era, come per tanti italiani, solo il simbolo più alto del potere politico. L'uomo che meglio incarnava la complessità democristiana. Il tessitore, in fasi storiche diverse, del governo possibile. Certo, era anche questo.
Ma prima ancora, e in modo più nascosto, meno esibito, quasi privato, era un maestro. Era un maestro diverso da come lo descrivevano coloro che insistevano sui suoi presunti bizantinismi, sul suo parlare difficile, sulle astrattezze di certe immagini spericolate, come quelle "convergenze parallele" che nella vulgata giornalistica del tempo erano diventate il marchio per ironizzare sulla incomprensibilità di Moro.
Noi, invece, conoscevamo un altro Moro. Quello di cui ci avevano parlato i nostri predecessori nel Movimento giovanile de, capace di andare, quando era presidente del Consiglio o ministro in carica, a certe riunioni semiclandestine ó di circoli o associazioni cattoliche giovanili solo per ascoltare.
Seduto in ultima fila a sentire cosa avevano da dire quei ragazzi che vivevano il '68 da democristiani. Il professore che non aveva mai voluto interrompere la sua attività universitaria proprio per tenere vivo il suo rapporto con i giovani.
Conoscevamo Aldo Moro per averlo letto e riletto: gli scritti giovanili, i suoi interventi alla Costituente, i suoi discorsi politici che accompagnavano e spesso anticipavano il divenire della nostra storia politica. In quelle pagine, in quelle analisi, in quei pensieri capaci di guardare sempre più lontano, di allungare l'orizzonte, la nostra generazione trovava le ragioni di un impegno.
Ci convinceva quel principio di non appagamento come regola che conduce i cristiani attraverso la storia. Ci convinceva quell'idea alta di libertà come presidio della dignità della persona, delle comunità, della società rispetto ad un potere troppo invasivo.
Ma anche la concezione dello stato come strumento a difesa delle istanze dei più deboli, come garanzia di giustizia e di solidarietà.
Ci colpiva soprattutto, di Moro, quella che lui stesso definiva "intelligenza degli avvenimenti" e che nasceva proprio dalla consapevolezza della democrazia come processo che continuamente si svolge. Di qui l'incessante attenzione per il cambiamento, per i "tempi nuovi", per le speranze, le attese, le domande di un Paese in tumultuosa crescita.
La consapevolezza dell'affermarsi di nuovi diritti, ma anche l'invocazione, coraggiosa e purtroppo per molti versi disattesa, di una nuova stagione dei doveri senza la quale, ammoniva, l'Italia avrebbe rischiato di perdersi.
Insomma, Aldo Moro era per noi il politico capace di tenere accesa la luce su quella "umanità che vuole farsi", come disse nel '68 in uno dei suoi discorsi più belli. E noi giovani cattolici ci sentivamo un pezzo di quell'umanità nuova.
Per noi, che, come ci aveva spiegato Benigno Zaccagnini, (non a caso portato alla segreteria de da Aldo Moro), eravamo in politica non in nome della fede ma a causa della fede, era necessario fare emergere con nettezza la "differenza" cristiana. Differenza che pretendevamo anche dalla Dc. Da come era diventata o anche da come in quegli anni veniva raccontata: partito conservatore, partito-Stato, blocco di potere. Una rappresentazione che sentivamo ingiusta e offensiva rispetto a ciò che noi sentivamo di essere.
Moro e Zaccagnini erano i testimoni che quella domanda di novità e di cambiamento che c'era nell'Italia di allora riguardava anche noi. Che era possibile rialzare la testa, tornare nelle scuole, nelle fabbriche, nelle piazze. Che la nuova Dc, come diceva il motto elettorale di Zac, era già cominciata. Nel segno di una politica popolare, antifascista, di ispirazione cristiana nei contenuti ma anche nello stile.
Incontravamo lungo questa strada un altro grande popolo, un'altra generazione che con Enrico Berlinguer voleva cambiare, come noi, la politica. Fu la stagione di una competizione feconda, cementata dalle stesse preoccupazioni per la democrazia, rafforzata dalla comune lotta al terrorismo.
Non sappiamo quali sviluppi politici avrebbe dovuto avere la terza fase di Moro, ne a quale approdo avrebbe condotto la solidarietà nazionale. Il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse cambiarono il corso degli eventi e, io credo, la storia politica di questo Paese, rendendo più difficile la transizione verso una democrazia compiuta.
Trent'anni dopo è giusto tornare a pensare ad Aldo Moro. Alla sua politica. Alla lezione di questo "uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico" come disse Paolo VI nella sua preghiera in Laterano, che è sopravvissuta all'odio, alla violenza, alle ombre di troppe verità che ancora mancano e che ha continuato a dare frutti.
 
 
 

 

Categoria: Persone
Commenti dei lettori: 1 commento -
Ricordare Aldo Moro riempe sempre di commozione e nostalgia. Rinasce la speranza che la politica possa ancora scrivere pagine importanti per la vita del nostro Paese. Ma vi è anche la consapevolezza della distanza abissale che ci separa dalla grandezza di questo uomo. Grandezza che traspare, al di là dell'esaltazione postuma, nei suoi scritti, nei ricordi di chi operò con lui, nelle parole di chi lo conobbe bene, primo fra tutti Paolo VI. Grazie Sen. Rossi! Grazie On. Franceschini!
Scritto da francesco fachini il 21/3/2008 alle 11:56
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