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inserito il 8/7/2008 alle 10:30

 

1. Ripartire dal bisogno di giustizia comune a ogni uomo

L’amministrazione della giustizia in Italia è oggi circondata da una diffusa disistima da parte della società, che la giudica generalmente inefficiente e spesso asservita a logiche di parte, antitetiche a quel carattere di indipendenza che dovrebbe costituirne il connotato essenziale.
A ciò si accompagna una generale disaffezione da parte di molti operatori, dovuta al senso di inutilità del proprio lavoro: enormi risorse umane ed economiche sono impiegate per la celebrazione di processi destinati spesso a non avere alcun esito concreto (si pensi agli effetti, sotto questo profilo, del provvedimento di indulto o alla celebrazione di processi nei confronti di persone irreperibili, delle quali è addirittura incerta la vera identità e che mai verranno identificate), sicché l’imponente macchina giudiziaria appare non di rado funzionale solo a logiche di autoconservazione burocratica o di soddisfacimento di esigenze corporative.
Il risultato di questa situazione è l’attuale paralisi del sistema giustizia ed il sentimento di impotenza e di rassegnazione che affligge quanti, impegnati come operatori del diritto, vorrebbero contribuire ad offrire un servizio che rimane essenziale per una società civile: una giustizia che realizzi il suo scopo, cioè l’“attribuire a ciascuno il suo”, per usare l’espressione del brocardo latino, scolpito su molti palazzi di giustizia del nostro paese.
Le cause e le responsabilità di questa situazione sono molteplici, ma una cosa è certa: la crisi della giustizia non è solo crisi di efficienza, sicché non è possibile porre la speranza di un cambiamento esclusivamente in una migliore organizzazione.
I problemi posti dall’amministrazione della giustizia in Italia esigono innanzitutto il coraggio di un’umile rifondazione in termini di senso, prima ancora che interventi tesi all’utopica razionalizzazione dell’esistente, giacché tutti - operatori ed utenti – stanno pagano lo scotto di scelte fatte, per troppo tempo ed a diversi livelli (promulgazione delle leggi, organizzazione dell’apparato giudiziario e dell’avvocatura), prescindendo da quell’essenziale dimensione costituita dal bisogno di giustizia che ognuno reclama a gran voce, perché presente nel cuore di ogni uomo, ed il cui soddisfacimento è la condizione per una pacifica convivenza.
È innanzitutto questo bisogno che è stato tradito in questi anni: sui temi della giustizia - temi sensibili per l’opinione pubblica proprio perché riconosciuti rispondenti ad un sentire umano innato e condiviso - si è infatti parlato ed agito in termini troppo spesso strumentali, per fornire copertura a posizioni ideologiche, giustificazione a pressioni di gruppi di potere, adesione ad inaccettabili soluzioni compromissorie, con le quale i diversi poteri (politici ed economici) hanno di fatto perseguito i propri interessi particolari, piuttosto che tendere al giusto fine del bene comune, sacrificando le proprie pretese particolari.
Si è abbandonata, in altri termini, quella “sensibilità alla verità” che, come richiamava Benedetto XVI nel discorso preparato per la visita all’Università della Sapienza, non può essere sopraffatta dalla “sensibilità per gli interessi”.
È dunque necessario ripartire da un onesto e responsabile atteggiamento di fronte al bisogno di giustizia: riconoscere tale bisogno permette di fondare una unità reale ed operativa tra quanti, con diverse funzioni e posizioni di responsabilità, intendono rispondervi, pur consapevoli che la giustizia è un ideale al quale si deve tendere e che non potrà mai essere compiutamente realizzato.
È solo a questo livello che appare possibile un confronto proficuo che – anche nell’ambito di un sano compromesso politico – sappia tradursi per il bene di tutti in scelte culturali chiare e verificabili da ciascuno in termini di auspicato beneficio.

 
2. Il recupero della responsabilità
 

Qualunque discorso riformatore dell’amministrazione della giustizia non può prescindere dal recupero dell’idea di responsabilità di tutti indistintamente gli operatori della giustizia.
Per la magistratura, si tratta innanzitutto di andare oltre un’astratta e spesso strumentale idea di indipendenza che, muovendo da una non realistica immagine di un giudice slegato dal contesto culturale e sociale in cui opera, lo ritiene mero applicatore della legge secondo processi logico-giuridici neutri. È ben noto invece che nell’applicazione della legge spesso il giudice – talora inconsapevolmente – opera delle scelte di valore, delle quali deve dunque assumersi la responsabilità e che deve pertanto onestamente esplicitare, per permettere un reale controllo della società sul suo operato: un controllo finalizzato alla verifica del rispetto non solo della lettera, ma anche dello spirito della legge. Il giudice non opera infatti in una torre d’avorio avulsa dal contesto sociale e chi lo afferma non fa che proporre una pericolosa mistificazione, tesa spesso a mascherare posizioni ideologiche nell’esercizio della giurisdizione. Solo questa consapevolezza permette di evitare che il pur indispensabile valore dell’indipendenza della magistratura (principio cardine irrinunciabile di ogni ordinamento democratico) si risolva nell’avallo di arbitrarie posizioni soggettive.
L’indipendenza implica dunque sempre una responsabilità di fronte a qualcosa ed a qualcuno. Per il giudice significa responsabilità di fronte al supremo bisogno di giustizia, in una costante ed intellettualmente onesta tensione all’attuazione della sovranità popolare espressa dalla legge, tanto più quando essa – come spesso accade - lascia inevitabili margini di scelta nel momento della sua concreta applicazione. Questi casi non devono essere il pretesto per il giudice di affermare le proprie parziali e soggettive opzioni culturali ed ideologiche, compiendo così una scelta dirompente in una società culturalmente non omogenea come quella italiana.
Quanto poi alle consapevoli distorsioni della giustizia a fini di parte, mediante lo stravolgimento della stessa lettera delle legge e la strumentalizzazione del ruolo istituzionale del giudice per ragioni politiche (si pensi a taluni casi di abuso nell’utilizzo e nella divulgazione delle intercettazioni telefoniche o ai casi di sistematica violazione del segreto), si deve affermare con forza che esse esulano dall’idea stessa di giurisdizione e richiedono solo reazioni repressive (oggi non sempre adeguate), anche per evitare che il discredito così generato travolga i molti che lavorano con sacrificio, passione e reale indipendenza.
La necessità del recupero dell’idea di responsabilità riguarda non solo i magistrati, ma tutti gli operatori del diritto: l’azione di ciascuno – qualunque sia il ruolo rivestito – deve infatti essere funzionale alla risposta al bisogno di giustizia presente nel cuore di ogni uomo e che la società deve soddisfare.
Questo significa ad esempio che per l’avvocato l’interesse particolare che egli è chiamato a servire non può essere il criterio da affermare a qualunque costo e senza alcun limite, fino a giungere allo stravolgimento degli istituti processuali: è necessario recuperare l’idea dell’avvocato come “patrocinatore”, termine questo la cui radice è la parola pater, la quale evoca l’idea di una responsabilità verso la totalità dei fatti costitutivi del reale, sicché proprio tale totalità non deve essere persa di vista anche nella difesa dell’interesse particolare.
Ma il richiamo alla responsabilità di fronte al bisogno di giustizia riguarda anche coloro che hanno, nella struttura burocratica, responsabilità organizzative: spesso l’inefficienza della giustizia deriva infatti dalla mancanza di coraggio nell’adottare scelte che intacchino apparati burocratici e prassi organizzative finalizzate solo al mantenimento di strutture ormai prive di una reale utilità o comportanti costi sproporzionati rispetto ai risultati raggiunti.

segue

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