Ieri, in consiglio regionale, la maggioranza ha voluto approvare alcune disposizioni in materia di artigianato e commercio, con lo scopo di cercare di limitare nuovi esercizi aperti da cittadini non italiani.
Tale legge va a incidere sulle regole della concorrenza e pertanto verrà impugnata sia dal governo che dalla commissione europea.
A parte questo, il contenuto della legge presenta alcuni aspetti singolari che fanno riflettere.
In primo luogo il voler limitare le attività invocando <imperativi di interesse generale> che, oltre a comprendere l’ordine pubblico e la sanità, inseriscono in maniera piuttosto pasticciata anche il riferimento alle politiche culturali. Ma io mi chiedo: chi potrà decidere se una nuova attività sia coerente o meno con le politiche culturali della Lombardia?
E poi c’è un’altra questione. La legge propone di inserire nelle informazioni commerciali solo termini stranieri il cui significato è noto. Peccato che una cosa del genere potrebbe portare a situazioni al limite del ridicolo, specialmente in un momento storico come questo, caratterizzato dalla circolazione di merci, persone, prodotti e idee.
Il sushi, per esempio, tutti sanno cos’è.
Ma “wasabi” è un termine abbastanza di uso corrente per essere lasciato così o necessità di traduzione? Come suonerebbe sushi in salsa verde di rafano?
Lo stesso discorso vale per il kebab, ma per “felafel” come la mettiamo?
Mettere queste restrizioni non è un controsenso alle porte dell’Expo, quando arriveranno in Lombardia persone da tutto il mondo?
I turisti cercheranno parole che conoscono, come wasabi e felafel, e di certo verrebbero spiazzati dalle nostre traduzioni.
E poi perché voler deformare a tutti i costi nomi che si fanno “portavoce” di cultura e tradizione ed hanno un loro preciso significato?