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inserito il 21/11/2008 alle 09:44

Barack Obama vuole costruire un “team of rivals”, una squadra di avversari. La sua politica, ha spiegato il consulente democratico Bob Shrum, è inclusiva. Vuole mettere tutti sulla stessa barca a remare nella stessa direzione per un obiettivo. Visione pragmatica che poco ha da spartire con le incrostature ideologiche tradizionali. 

Durante la campagna elettorale Obama venne definito anche un “candidato post ideologico”, un politico al quale male si adattano le tradizionali etichette politiche, destra-sinistra, conservatore-progressista (o liberal nell’accezione statunitense del termine). Laddove Karl Rove, il guru elettorale e super consigliere di Bush, costruì una maggioranza risicata ma saldamente conservatrice e per anni l’ha coccolata spingendo sull’acceleratore di politiche gradite a una sola parte dell’America, Obama promette altro. Promette, appunto. Ciò che risulterà saranno gli avvenimenti e le scelte di domani, non certo i proclami - peraltro equilibrati e misurati - del team del presidente eletto.

Pochi ricordano, o perché accecati da un pregiudizio anti-Bush, o perché la memoria talvolta difetta, che da governatore del Texas Bush collaborò con un’Assemblea statale democratica. Era stato un governatore disposto a “reach across the aisle”, a oltrepassare i confini partitici. Quando s’insediò alla Casa Bianca alcune delle sue nomine rientravano in questa logica: tenne George Tenet (nominato da Clinton) alla guida della Cia; tenne Norman Mineta (clintoniano pure lui) a guidare il dipartimento dei Trasporti. E dopo l’11 settembre riuscì, prima di dilapidare consensi e stima di molti nell’avventura irachena, a saldare la Nazione e a governare con spirito bipartisan. Certo, l’America viveva un’emergenza nuova e terribile e l’unità era forse una strada obbligata. Ma non tutti accettarono le aperture di Bush con lo stesso entusiasmo. Fra gli scettici, sarà un caso, Tom Daschle, allora numero uno democratico al Senato, oggi ministro della Sanità in pectore di Obama.

SEGUE

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