Un grafico al giorno leva lo spread di torno
Mario Agostinelli   agostinelli.mario@gmail.com
inserito il 28/4/2009 alle 09:00

“Mi dia 150 gr. di prosciutto”. “Sono 200, lascio?” “No!”. In una lettera inviata ad un quotidiano nazionale un lavoratore spiegava così la crisi economica. Mi ha colpito perché dimostra che questa crisi non sta solo dentro i grandi gruppi finanziari internazionali, non investe solo il sistema economico e produttivo del nostro paese ma entra prepotentemente dentro la vita quotidiana di ciascuno, modificandola. La crisi vista con gli occhi delle lavoratrici e dei lavoratori è licenziamento, cassa integrazione e precarietà cioè disperazione e paura del futuro (nella nostra Provincia le ore di cassa integrazione per i soli operai sono in tre mesi triplicate!) ma è anche sacrifici, rinunce, perdite. Perdite non solo materiali ma anche simboliche che influiscono sull’immagine di sè, del proprio ruolo sociale, dei propri diritti. Un mese fa abbiamo visto in televisione, la storia straordinaria di un umile bracciante del Sud, Giuseppe di Vittorio. Insegna quella storia che è solo attraverso un processo collettivo di coscienza di sé e dei propri diritti che si può migliorare la propria condizione e cambiare la realtà. Al contrario, oggi, nella crisi economica i lavoratori, la cui condizione materiale e simbolica è già da tempo segnata da solitudine, sconfitta, perdita di senso, rischiano di smarrire del tutto la consapevolezza del loro valore sociale. Da questo punto di vista il problema di come si esce dalla crisi ha certamente ha che fare con la necessità di garantire tutta una serie di ammortizzatori sociali in grado di contrastare la precarietà e tamponare in via immediata la perdita totale o parziale del lavoro ma introduce, se la si vuole vedere, una questione molto più grande. Cioè la sorte del lavoro salariato. La frammentazione e la delocalizzazione dell’attività produttiva, i processi di precarizzazione del lavoro, la decostruzione, in particolare in Europa, dei diritti dei lavoratori, il tentativo di cancellare il contratto collettivo nazionale sono il prodotto del liberismo degli ultimi trent’anni che ha agito contro il lavoro e contro il welfare. Questo capitalismo è oggi in crisi. Uscire dalla crisi non è però una strada a senso unico: si può scegliere, come sta facendo anche il governo italiano, di favorire l’evasione e l’abusivismo, di aumentare la spesa diretta dello Stato per sostenere banche ed economia e per ridurre ulteriormente la spesa sociale. Un “modello”, questo, che intreccia frammentazione del lavoro, bassi salari, una finanza un po’ più regolata e l’ambiente ridotto a business. L’obiettivo è la definitiva trasformazione della “classe lavoratrice ” in “plebe”, del “welfare pubblico” in “carità compassionevole”, “dell’uguaglianza di diritti ” nelle “opportunità”. Oppure si può scegliere di attuare una diversa politica fiscale, una riqualificazione della spesa pubblica; una politica sul cosa e sul come produrre attenta alla dimensione di genere e all’ambiente; un sostanziale riconoscimento dei diritti (al lavoro stabile, al salario equo, ai servizi, alla pensione). In una parola un moderno welfare pubblico in grado di riaffermare i principi dell’uguaglianza, della sicurezza sociale, della solidarietà. E se la sinistra scegliesse questa strada e provasse a marciare unita?

Categoria: Economia
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