inserito il 18/7/2008 alle 14:58
L’interrogativo circa la possibilità di interrompere, nel protrarsi dello stato vegetativo permanente, dell’idratazione e dell’alimentazione (quasi sempre attuate mediante un intervento medico) esige di considerare la peculiarità, rispetto agli atti terapeutici, del tipo d’intervento in discussione: sebbene, per l’appunto, esso di regola venga posto in essere, ma non necessariamente, attraverso il coinvolgimento di personale sanitario. L’idratazione e l’alimentazione, in particolare, costituiscono fattori di cui ogni persona, anche sana, necessita per vivere. Non rappresentano un atto in grado di incidere sullo stato patologico e, conseguentemente, non surrogano una funzione dell’organismo compromessa dalla malattia. Dunque, non costituiscono una terapia. In tal senso, fanno parte delle cure che devono restare assicurate anche al malato in fase terminale, pur nel momento in cui ogni terapia sia stata interrotta. Il ricovero in hospice di un malato terminale non autorizza affatto - salve le condizioni particolari di cui più oltre si dirà - l’interruzione dell’alimentazione e soprattutto dell’idratazione. Né, tantomeno, il carattere terminale delle condizioni di un paziente può essere legittimamente indotto proprio dall’interruzione di tali prestazioni.
Del resto, i malati in condizione vegetativa potrebbero essere idratati e alimentati anche per via ordinaria: il che viene evitato solo per impedire più facili complicanze connesse alla somministrazione orale in quello stato, come pure al fine di rendere più agevole la procedura e più facilmente controllabili i dosaggi.
Simile problematica, peraltro, non è approfondita nella sentenza n. 21748/2007 della Cassazione civile relativa al caso di Eluana Englaro, che si limita a evidenziare un’ovvietà: «Non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati […] implicanti procedure tecnologiche». Tutto questo evidenzia come l’interruzione di tali apporti non costituisca la rinuncia ad atti sproporzionati di carattere terapeutico. Di conseguenza, essa non può essere oggetto né di un’iniziativa delle persone che abbiano in cura il malato in stato vegetativo permanente, né di una richiesta formulabile per il futuro attraverso dichiarazioni anticipate: la condotta di cui si discute comporterebbe, infatti, il prodursi di una relazionalità del medico (o altro soggetto) verso il malato per la morte, attraverso la causazione della medesima in forma omissiva: un tipo di relazionalità che non è mai ammessa dall’ordinamento giuridico e che va contro gli stessi fini dell’attività medica indicati dall’art. 1 del codice deontologico.
Le conclusioni sarebbero in ogni caso le medesime anche ove si negasse la natura non terapeutica dell’idratazione e dell’alimentazione così come ordinariamente vengono attuate nei confronti dei pazienti in stato vegetativo. Il mantenimento di simili presidi, infatti, non produce sofferenze né menomazioni, ma solo la conservazione della vita: per cui - lo evidenzia anche la sentenza che abbiamo citato - esse non potrebbero definirsi, comunque, atti sproporzionati. Lo diverrebbero, semmai, solo allorquando il corpo non fosse più in grado di assimilare liquidi o sostanze nutritive, il che ovviamente esigerebbe l’interruzione. Sulla base di questi rilievi, deve riconoscersi che quanto viene in gioco (salva l’ipotesi estrema poco sopra menzionata) nel momento in cui si domandi o si decida di interrompere l’idratazione e l’alimentazione in rapporto ai contesti in esame non è un giudizio riferito a tali interventi, ma - inevitabilmente - alla condizione esistenziale dello stato vegetativo.
E che il problema di fondo sia proprio questo è evidenziato dalla stessa recente pronuncia in sede di rinvio della Corte di Appello di Milano sul medesimo caso di Eluana Englaro, laddove ritiene che la Cassazione richieda, prima ancora di accertare se l’interessata avrebbe o meno accettato il trattamento di idratazione e alimentazione con sondino naso-gastrico, «di valutare piuttosto se, in ragione delle sue concezioni di vita e in ispecie di dignità della vita, avrebbe comunque accettato o meno di sopravvivere in una condizione di totale menomazione fisio-psichica e senza più la possibilità di recuperare le sue funzioni percettive e cognitive» (ma come si potrebbe affermare, comunque, che le espressioni da cui si vorrebbe ricostruire la volontà di Eluana siano specificamente riferibili all’eventualità di essere lasciata morire di sete e di fame?).
Ora, ammettere che un’espressione antecedente del volere relativa all’eventualità di una perdita irreversibile della coscienza sia in grado di legittimare, quando davvero possa essere provata, atti volti a rimuovere condizioni in sé necessarie anche alla sopravvivenza di un individuo sano significa consentire l’instaurazione di un rapporto giuridico funzionale al prodursi della morte e, di fatto, la cooperazione a un intento di soppressione, date certe condizioni, della propria vita. Categoria: Istruzione e Cultura, Persone
non capisco cosa ci sia di più innaturale di essere tenuta in vita da macchine artificiali.
E' quasi innaturale come il celibato dei consacrati.
Scritto da emanuele martini il 18/7/2008 alle 17:35 |
![]() Archivi:
Ultimi post:
(24/3/2009 - 15:56)
(20/3/2009 - 16:30)
(20/3/2009 - 16:03)
(19/2/2009 - 15:15)
(9/1/2009 - 10:20)
(21/11/2008 - 09:49)
(21/11/2008 - 09:44)
(20/11/2008 - 15:50)
(15/11/2008 - 12:30)
(31/10/2008 - 10:18)
|